la difficile conciliazione tra Museologia e Management
Appunti sul Convegno Internazionale:

“L’Azienda Museo: dalla conservazione di valore alla creazione di valori”

di Enzo Varricchio

 

Un tema stimolante per gli ottant’anni dell’Università di Firenze
Il mondo accademico fiorentino ha dedicato due intense giornate di studio al passaggio epocale dalla concezione tradizionale delle istituzioni museali, quali luoghi di protezione e conservazione di valore, a quella emergente che ne coglie la funzione di “enti produttori di valori”.
Nella splendida cornice del vasariano Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, nei giorni 6 e 7 dello scorso novembre, si è svolto il Convegno Internazionale dal titolo “L’azienda Museo: dalla Conservazione di Valore alla Creazione di Valori”, organizzato dal locale Ateneo nell’ambito delle manifestazioni indette per l’ottantesimo anno dalla sua fondazione.
Il Convegno, patrocinato dalle massime cariche dello Stato e dal Ministero per i Beni e le attività Culturali, unitamente all’Accademia Italiana di Economia Aziendale e all’International Council of Museums d’Italia, si è prefisso l’attualissimo e difficile compito di stimolare il confronto tra due culture tradizionalmente eterogenee, quella manageriale e quella museologica, oggi “costrette” a condividere il medesimo territorio d’azione.
Dopo la creazione della Commissione “Economia dell’Arte” su impulso del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, è stata l’occasione per gli aziendalisti di matrice universitaria di immergersi nel “recente e affascinante ramo della ricerca economica in cui due saperi così apparentemente distanti e distinti possono conoscersi nella differenza e nel confronto di ontologie, contenuti e finalità per fondare un’alleanza di servitù capace di promuovere progetti e metodologie concorrenti al perseguimento del pubblico interesse”.
Per un verso, la caduta del modello statale assistenzialista, con la conseguente drastica contrazione delle risorse pubbliche disponibili, ha, infatti, determinato la necessità di considerare sempre più le implicazioni economiche, oltre che sociali, dell’attività delle istituzioni culturali, provvedendo a una loro rendicontazione e alla progressiva introduzione nelle strutture museali di inedite figure gestionali, permeate di cultura aziendalista.
Come in altri settori, l’ingresso del privato nel pubblico sta proiettando i musei in una dimensione di “quasi-mercato”, affiancando al ruolo di conservazione della memoria collettiva, storicamente loro assegnato, il compito di produrre nuova ricchezza, non solo culturale ma anche commerciale, occupazionale, turistica.
Per altro verso, il mondo politico-economico va accorgendosi che “il patrimonio storico e artistico nazionale rappresenta il grande giacimento petrolifero del Paese” e si appresta a gestire il cambiamento di prospettiva rispetto ad un passato in cui i beni culturali si consideravano non produttivi di ricchezza materiale.
Tutto ciò comporta una gestione razionale ed efficace delle risorse, nonché una maggiore responsabilizzazione nelle scelte dei dirigenti, per stabilire un equilibrato rapporto tra fattori impiegati e risultati conseguiti.
Di qui, la recente tendenza a considerare gli enti museali quali vere e proprie aziende, le cui scelte vadano ispirate da criteri di economicità ed efficienza ed il cui bilancio venga sottoposto periodicamente al giudizio degli stock e stake-holders.
Contro questa tendenza ad inquadrare la vocazione intellettuale dei musei entro cornici manageriali, si oppone strenuamente la nomenclatura della museologia italiana, sostenendo la primazia dell’attività scientifica e di ricerca su qualsivoglia tentativo di schematizzazione imprenditoriale.
2) Management e Museologia: due fazioni, “l’un contro l’altra armate”.
Tale contrasto è emerso sin dalle prime battute del Convegno, allorquando il Presidente dell’ICOM Italia, il paleontologo Giovanni Pinna, ha denunziato i rischi di smarrimento dell’identità del museo e della sua prioritaria funzione di produzione culturale, a causa di una mentalità che effettua le scelte e giudica i risultati sulla scorta di criteri meramente economicistici. A suo giudizio, a fronte dell’introduzione di una variegata offerta di cosiddetti “servizi aggiuntivi” da parte dei musei, si rischia di ottimizzare i prodotti secondari dimenticando il prodotto primario: la collezione e la sua migliore fruibilità, sia per gli studiosi che per il pubblico.
Secondo il museologo, le nuove normative, le recenti politiche economiche, il “patto per la cultura” stipulato dal Ministero per i Beni Culturali con Confindustria, i partenariati pubblico-privato, non hanno inciso sulla qualità della ricerca né hanno migliorato la cultura del museo.
Intervistato, Pinna, ha ribadito che “Il museo è una realtà complessa che deve creare e mantenere l’individualità e l’originalità della propria cultura; è scorretto conchiudere il poliforme sistema delle realtà museali entro il paradigma aziendale: il museo non è un’azienda in senso stretto ovvero è qualcosa di più, un laboratorio di idee, un luogo di confronto anche dialettico con il visitatore, al quale il direttore del museo deve essere in grado di proporre persino ciò che non vuole o ancora non sa di desiderare. Altrimenti, spinti dalla smania di accaparrarsi audience e sponsor, secondando le mode del momento, i musei subiranno il processo di commercializzazione e una perdita di qualità della loro offerta, come è già accaduto per le emittenze televisive italiane. D’altra parte, vi sono già casi eclatanti di crisi di rigetto di direzioni di stampo manageriale, da parte di alcune importanti istituzioni museali”.
La replica della dottrina aziendalistica a tale visione negativa del fenomeno, può riassumersi nelle parole del prof. Fabrizio Pezzani, dell’Università “L. Bocconi” di Milano: “E’ vero che la cultura, come la salute, non ha un prezzo ma è indubitabile che abbia un costo per la collettività. Nessuno vuole mettere in dubbio la preminenza della missione culturale dei musei italiani ma, in un periodo di contingentamento dei mezzi finanziari, è quantomeno legittimo chiedersi come e con quali risultati queste risorse vengono impiegate. I musei non possono tenere chiuse le porte della loro turris eburnea mentre il mondo si trasforma ma devono aprirsi al Management e introdurre moderni sistemi di Accountability ”.
E’ evidente che molta strada dovrà ancora farsi per favorire una proficua interazione tra le due fazioni “l’un contro l’altra armate”, rendendo compatibile la specificità dei luoghi di produzione culturale con le esigenze di una oculata gestione, magari attraverso la formazione di nuove figure plurispecialistiche o équipe di intelligenze differenti, in grado di coniugare le competenze storiche, archeologiche, artistiche, con quelle di tipo manageriale.
3) Modelli aziendali per pianificare il successo di un museo e bilanci sociali per misurare il suo “impatto ambientale”
Il Convegno fiorentino ha mostrato alcuni percorsi praticabili per giungere al migliore sfruttamento dell’enorme patrimonio storico-artistico italiano.
Il prof. Giuseppe Marcon, dell’Università di Venezia, ha illustrato i vantaggi dell’approccio strategico di balanced scorecard (quadro bilanciato di risultati), teorizzato da Kaplan e Norton nel 1992, ai problemi gestionali del museo.
Marcon ha richiamato più volte le teorie del guru del marketing, Philip Kotler, il quale sottolinea la necessità per il museo di definire la propria mission e di effettuare il controllo quali-quantitativo dei risultati della gestione, per compiere il processo evolutivo attraverso una serie di passaggi: da organizzazione elitaria a struttura diffusa, da luogo di conservazione a soggetto con varietà di funzioni, da strumento di trasmissione di informazioni a propulsore di nuove proposte e depositario della peculiare museum experience, capace di attrarre interesse e risorse dall’ambiente in cui svolge il suo ruolo.
La prof. Barbara Sibilio, dell’Università di Firenze, si è occupata dell’individuazione del modello di bilancio più appropriato per l’azienda del tutto particolare che è il museo. Occorre pensare a un sistema unico di documenti che consentano la verifica dell’operato del management per: 1) tracciare l’identità del museo; 2) rendicontare i risultati conseguiti; 3) sintetizzare le operazioni programmate e quelle realizzate.
4) La funzione sociale e il ruolo emozionale del museo
Dovrà trattarsi di una sorta di “bilancio sociale”, cioè di uno strumento per rendere trasparenti le attività svolte dal museo e verificarne le ricadute in termini di benefits e detriments per l’ambiente. Secondo la studiosa toscana, nel bilancio sociale di un ente museale non ha senso parlare di valore aggiunto, in quanto i servizi museali non vengono ceduti al prezzo di mercato ma in base a tariffe imposte oppure gratis. Né può il museo stabilire una relazione misurabile con tutti i suoi molteplici e diversi stake-holders. Sicché, il bilancio del museo sarà costituito da tre documenti integrati tra loro per: 1) la valutazione del patrimonio (collezioni, beni immateriali, etc.); 2) la rendicontazione dei movimenti finanziari, monetari, economici; 3) la costruzione degli indicatori di performance.
Nel corso dell’intervista, la prof. Sibilio ha spiegato le motivazioni che l’hanno spinta ad essere tra gli organizzatori del convegno: “Gli aziendalisti si sono accorti della grande redditività della cultura, senza per questo pretendere di rubare il mestiere ai museologi. L’idea di questo Convegno è nata dal Gruppo Interdisciplinare Aziende Non Profit della Facoltà di Economia di Firenze, che da tempo lavora con seminari su questi temi”.
La prof. Luciana Lazzeretti, dell’Università fiorentina, pur essendo un’aziendalista, ha introdotto un approccio più soft rispetto ai suoi colleghi, preferendo la semantica dei luoghi d’arte alla pianificazione strategica dei risultati aziendali. Già il titolo della sua relazione preludeva ad un cambio del tono della discussione: “Città d’arte e musei come luoghi di significati: una possibile risposta alle sfide della surmodernità. Un luogo appunto”. Così, tra una lettura calviniana da “Le città invisibili” e una citazione dell’ecologia mentale di Gregory Bateson o dei non luoghi antropologici di Marc Auget, si è sciorinato l’intervento dedicato ai rischi surmoderni per le città d’arte di svuotamento di identità, di perdita di significati per i luoghi della cultura e per i musei, e ai metodi per fronteggiarli. La prof. Lazzeretti ha ricordato i casi di “restituzione di valore e di significanza” compiuti negli underground metropolitani e nelle periferie degradate, grazie ad operazioni artistiche, installazioni, performance poetiche, che dimostrano la possibilità di coniugare l’economia con la cultura e con il sociale.
Nella seconda giornata del Convegno, tenutasi presso il Monastero della Calza, apposite sessioni sono state dedicate agli assetti istituzionali e alla governance, alla missione e alle scelte strategiche, alla pianificazione, programmazione e controllo, al tema dei distretti culturali, alla disciplina delle fondazioni museali, all’esame di casi di eccellenza e di esplorazione innovativa.
5) Il binomio vincente: cultura e turismo
Il Direttore generale del Touring Club Italiano, Guido Venturini, si è soffermato sulla gestione del distretto culturale dal punto di vista turistico, evidenziando le proficue interazioni sistemiche generantesi dalla messa in rete dei luoghi e dei servizi sul territorio. Nella sua relazione, Venturini ha chiarito che: “Il distretto culturale identifica un sistema di offerta territoriale caratterizzato da un’alta densità di risorse o attività culturali di pregio e da un’integrazione di servizi culturali e turistici, ove insistono esperienze di valorizzazione che hanno anche per obiettivo lo sviluppo delle filiere produttive collegate dell’economia locale. La natura delle risorse in gioco e la loro valenza sociale facilitano la convergenza di interessi da parte di soggetti pubblici e privati: questo si traduce di frequente nell’affermazione di forme organizzative e gestionali tipiche del distretto, quali le reti e i sistemi, modelli che ben si integrano con quelli di governance turistica, come ad esempio il Destination Management”.
6) Avvicinare il pubblico dei neofiti e curare la qualità dell’offerta
Nella sessione plenaria che ha concluso il Convegno fiorentino, la museologa canadese Nancy Hushion ha tracciato le coordinate psicografiche del pubblico del suo paese: il 20% dei canadesi frequenta assiduamente e sostiene l’attività dei musei; il 20% è costituito da coloro che non visitano volentieri i musei; il 30% è rappresentato dai modaioli che attualmente seguono la tendenza della massa a seguire gli eventi culturali; il 30% dei cittadini canadesi resta intimidito e insicuro prima di entrare in un museo, pur essendone attratto. Secondo la Hushion bisognerebbe puntare a favorire l’ingresso di quest’ultima fascia di popolazione nel pubblico museale.
Il museologo inglese Robert Anderson ha rilevato che, a causa della contrazione dei finanziamenti statali, va riducendosi sempre più l’attività curatoriale e di ricerca dei direttori dei musei, a beneficio esclusivo della ricerca di sponsorizzazioni, provenienti da imprese che tendono a imporre le loro opinioni sulle scelte del museo.
Il Convegno non ha toccato alcuni temi cruciali del dibattito economico-culturale in corso, quali quelli del micro e macro mecenatismo, della possibilità di alienazione del patrimonio culturale disponibile dello Stato, del recupero e della tutela del patrimonio sommerso o misconosciuto della penisola.
Ha aperto, tuttavia, alcune porte per un proficuo scambio intellettuale.
I risultati contraddittori che emergono dalle nuove frontiere dei musei segnano il bisogno di un ulteriore percorso di avvicinamento, per individuare un terreno di mediazione e compenetrazione tra due formae mentis, quella dell’economico e quella del culturale, tradizionalmente contrapposte e oggi destinate a convivere in una logica di sviluppo continuo e sostenibile.
Bari, 27 novembre 2003
Enzo Varricchio

 

 

 

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